Sei così bella che
Non riesco più a parlare
Di fronte a quei tuoi occhi
Così dolci e così severi
Perfino il tempo si è fermato
Ad aspettare
Così recita la famosa canzone di Luca Barbarossa “Portami a ballare” dedicata alla mamma Annamaria, che vorrebbe portare a ballare uno di quei balli antichi che nessuno sa fare più, per allontanare i problemi e poter condividere di nuovo un momento di intimità. Un’intimità persa a causa di una vita troppo frenetica, che a volte mette distanza tra genitori e figli.
L’origine di questa festa dedicata a una figura così importante, può essere cercata nei tempi antichi in epoca pagana quando a maggio al tempo dei Greci e dei Romani, si festeggiava il culto delle divinità femminili e della fertilità e segnava il passaggio dall’inverno all’estate.
In tempi più moderni nel 1600 in Inghilterra si celebrava il Mothering Day la quarta domenica della quaresima ed era considerata così importante che per legge era stabilito che chi lavorava lontano da casa e dai genitori poteva rientrare per onorare la propria madre offrendole come dolce il mothering cake.
Nel 1870 fu proposta per la prima volta negli USA da una pacifista e femminista Julia Ward Howe ma la festa fu istituita solo nel 1914 sempre negli USA su proposta di Anna M. Jarvis.
Lei era molto legata alla madre e dopo la sua morte si impegnò in una battaglia, inviando lettere a ministri e membri del Congresso, affinchè venisse celebrata una festa nazionale per la mamma.
Grazie alla sua tenacia dopo due festeggiamenti nel 1907 e 1908 a Grafton e Filadelfia, nel 1914 il presidente Woodrow Wilson annunciò la delibera del Congresso che istituiva la festa della mamma nella seconda domenica di maggio in onore di tutte le mamma dei soldati.
Anna scelse come fiore simbolo di questa festa il garofano, molto amato dalla sua mamma, di colore rosso per le mamme in vita e bianco per le mamme scomparse.
In Italia una celebrazione che può assimilarsi a quella attuale fu “La Giornata nazionale della Madre e del Fanciullo” nell’ambito della politica della famiglia, che si svolgeva il 24 dicembre.
Ma nell’accezione intesa come oggi andiamo al 1956 quando il sindaco di Bordighera Raoul Zaccari insieme e Giacomo Pallanca, presidente dell’Ente Fiera dei Fiori e delle Piante Ornamentali di Bordighera, presero l’iniziativa di festeggiare la festa della mamma a Bordighera, facendosi anche portavoce di una battaglia in Senato, per l’istituzione a livello legislativo di tale legge.
L’anno successivo il parroco di Tordibetto don Otello Migliosi il 12 maggio 1957 celebrò la mamma nel suo significato religioso e cristiano. Tali celebrazioni continuarono ogni anno con importanti manifestazioni ed oggi è addirittura presente il Parco della Mamma progettato dall’architetto Enrico Marcucci.
Da allora comunque la festa prese piede in Italia e si celebrava dapprima l’8 maggio (in concomitanza con la Festa della Madonna del Rosario di Pompei) e poi venne definitivamente fissata la seconda domenica di Maggio.
Nel resto del mondo, in Svizzera fu introdotta nel 1917, in Finlandia, Norvegia e Svezia nel 1918, in Grecia nel 1923 ed in Austria nel 1924, ma non viene festeggiata in concomitanza nei vari paesi. In Egitto si celebra il 21 marzo, in Thailandia il 12 agosto in Norvegia la seconda domenica di febbraio, in Argentina la seconda domenica di ottobre, in Francia la mamma viene festeggiata l’ultima domenica di maggio ed è celebrata come compleanno della famiglia.
Per concludere condivido con voi questa poesia di Pablo Neruda, che rimasto orfano ad appena un mese, dedica alla sua matrigna “Mi sembra incredibile dare questo nome all’angelo tutelare della mia infanzia”.
La matrigna (madrastra) viene chiamata da Neruda con l’affettuoso neologismo di “mamadre”, che arricchisce la connotazione di “madre” con quella di “mamà” (mamma) e di “mamar” (succhiare il latte). Temuco è la piovosa città del Sud dove Neruda trascorse l’infanzia e l’adolescenza.
La mamadre, ecco che arriva
con zoccoli di legno. Ieri
soffiò il vento del polo, si sfondarono
i tetti, crollarono
i muri e i ponti,
l’intera notte ringhiò coi suoi puma,
ed ora, nel mattino
del sole freddo, arriva
mia mamadre, signora
Trinidad Marverde,
dolce come la timida freschezza
del sole delle terre tempestose,
lanternina
minuta che si spegne
e si riaccende
perché tutti distinguano il sentiero.
Oh, dolce mamadre mai ho potuto
dire matrigna -,
la mia bocca trema a definirti,
perché appena
fui in grado di capire
vidi la bontà vestita di poveri stracci scuri,
la santità più utile:
quella della farina e dell’acqua,
e questo fosti: la vita ti fece pane
e lì ti consumammo
nei lunghi inverni desolati
con la pioggia che grondava
dentro la casa
e la tua ubiqua umiltà
che sgranava
l’aspro
cereale della miseria
come se tu andassi
spartendo
un fiume di diamanti.
Ahi, mamma, come avrei potuto
vivere senza ricordarti
ad ogni mio istante?
Non è possibile. Io porto
il tuo Marverde nel mio sangue,
il cognome
del pane spartito,
di quelle
dolci mani
che ritagliarono da un sacco di farina
le brachette della mia infanzia,
di lei che cucinò, stirò, lavò,
seminò, calmò la febbre,
e, quando ebbe fatto tutto
e ormai potevo
reggermi in piedi saldamente,
si ritirò, cortese, schiva,
nella piccola bara
dove rimase in ozio per la prima volta
sotto la dura pioggia di Temuco.