Lei è Costanza, una fanciulla speciale che ho avuto l’onore di conoscere e volere bene.

Mi sono permessa di dare voce alle sue emozioni poiché lei non avrebbe potuto farlo, almeno non con l’uso delle parole. Fui invitata da lei a esplorare il suo mondo e io accettai di esserci e così un pomeriggio d’estate, “entrai” in punta di piedi e senza fare rumore, lì, dove voleva che andassimo insieme, senza neanche prenderci per mano.

E dunque la ricordo, sì… La ricordo ancora, avvolta nell’abito plissettato e lungo, interrotto in vita da una larga cintura. Le nuance delicate, delle stampe floreali, impresse sulla preziosa seta bianca, riportarono alla mia mente tenere sfumature primaverili.

Germogli, ancora acerbi che mai sarebbero sbocciati, lasciarono intravedere le nobili e sottili caviglie. La libertà ai piedi scalzi, la indussero a eleganti movenze e nella leggiadria di quei passi, si approprio’ lentamente della musica. E danzò, nella frescura del marmo bianco e lucido.

Le braccia erano nude e apparvero di un roseo scolpito. Assecondarono il fluttuare del corpo sinuoso in sintonia con le note e mentre dondolava, il suo corpo si perdeva nel ritmo sempre più intenso di vocalizzi melodiosi che lei stessa amava intonare.

E allora aumentò il passo, fino a lanciarsi in un turbinio di magiche piroette mentre la lunga veste accarezzò le gambe affusolate. Nel movimento improvvisato, la natura statica e immortalata nel suo abito, a un tratto, apparve prendere vita e risuonò un debole fruscio.

La guardai meravigliata.

L’ atmosfera surreale, in cui Costanza amava sovente rifugiarsi, la condusse quella volta a volteggiare con perfetta leggiadria nello spazio infinito della sua mente.

Solo danzando, ella, confortava la sua solitudine e riportava alla luce i ricordi per riviverli ancora.

Nell’esaltazione di quel vissuto ritrovato allungò le braccia verso quei corpi immaginari, sfuocati, che l’avevano amata e non c’erano più. Costanza era tutto ciò.

Era la fragile essenza di una bellezza mai esasperata, mai urlata e neanche compresa. Non aveva mai ostentato prepotenza o alterigia, lei non conosceva quei sentimenti. Erano solo le genuine emozioni del suo essere a scandire il passaggio del tempo e intanto cresceva.

Era la figlia, amata e “odiata”, di un uomo noto e rispettabile che mai aveva accettato quell’essenza fragile, seppur preziosa e capace di fermare l’attimo.

Di lei raccontavano che fosse malata e che vivesse in un mondo suo e mai avrebbe potuto capire quello degli altri, lontano e sfuggente. Amava illuminare il cuore di chi le voleva bene e a loro donava improvvisi sorrisi.

Non era avida di essi e mai li contaminò con umore maldestro. Protetta dalla mura della sua casa, Costanza visse nascosta alla vita e le sue giornate apparivano sempre uguali.

Nessuno doveva sfiorarla, nessuno poteva abbracciarla. Era una bambina dal corpo fragile, esile e la mente… sempre lontana.

Quando poi si addormentava, il padre, in punta di piedi, in assenza di sguardi accusatori, entrava nella sua stanza e osservava quell’ esserino piccolo e fragile. E solo allora trovava il coraggio di sfiorarle la mano. La tenerezza arrivava al cuore dell’uomo e gli occhi si inondavano di lacrime.

Rimaneva lì, incurante dello scorrere del tempo, nel buio violato da un timido spiraglio di luce, filtrato dalla persiana socchiusa. Contemplava quel corpicino dormiente a cui aveva dato la vita e mai pienamente accettato. Eppure amava quella figlia, ma sapeva farlo solo in silenzio.

Qualche volta si ritrovava a piangere e sperava che i suoi giorni non avessero mai fine, non prima di quelli della sua creatura indifesa. Chi l’avrebbe accudita? Chi avrebbe mai risposto a quei dolci sorrisi? Chi l’avrebbe potuta amare?

I pensieri attanagliavano la mente dell’uomo e la paura avanzava nel tormento del futuro. Costanza era stata la scelta di un grande sentimento, quello che la madre aveva avuto per lei.

Affetta da un brutto male, non aveva accettato di perdere il frutto del suo amore e risoluta, come solo una madre può essere, non aveva permesso ai medici di danneggiarlo con la prepotenza della chimica. Barattare la sua vita con quell’amore così piccolo e già immenso, era stata la sua tragica scelta.

Poco prima dell’ottavo mese le forze della donna vennero a mancare. Fu portata d’urgenza in ospedale e lì chiuse gli occhi. Non vide mai quelli della figlia e non senti il suo primo vagito.

I medici vollero sublimare ugualmente quell’incontro e fu così che adagiarono la neonata fra le braccia della madre.  La piccola respirò appieno l’odore di quell’essenza e la trattenne per sempre con sé.

Costanza non era una bambina gravemente autistica come la descriveva la scienza, ma una creatura speciale come la definiva chi l’amava. Cresceva nelle attenzioni dei parenti e ogni giorno tormentava la sua solitudine da gesti consueti e sempre uguali.

Nessuno poteva sfiorare la sua pelle delicata, come se a nessuno fosse permesso di sostituire le amorevoli braccia che mai l’avevano stretta e di cui né custodiva l’odore. Costanza amava danzare e non smise di farlo neanche crescendo.

Socchiudeva gli occhi e volteggiava nel suo mondo e tutto appariva possibile… normale.

Allungava le braccia e nella sfumatura dei preziosi ricordi che sembrava afferrare, ritrovava quel misterioso profumo, lo respirava appieno fino a rivedersi ancora in quel grembo che le donava pace. E lì, legata a quell’amore grande e mai definito, ascoltava la dolce nenia che aveva imparato a cantare e danzava.

Fino alla fine dei suoi giorni non smise di farlo. Costanza si è ricongiunta con la madre all’età di ventinove anni, e nel ricordo di chi l’ha amata, vive ancora danzando.

(Immagine: “Giovane ballerina”, opera di Francesca Licchelli – PitturiAmo®

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