Giurista e fautore della legge che dal 1997 prevede l’obbligo di trascrizione dei contratti di preliminari di vendita immobiliare, Giuseppe Fiore è stato membro della commissione ministeriale di studio che l’ha ideata e redatta tanto da essere stato insignito dal ministero delle Finanze del diploma di benemerenza di terza classe il 6 marzo di quello stesso anno.
Classe 1936 era un giovane virgulto del batti e corri quando la Lazio Baseball vinse lo scudetto del 1955. All’epoca ricopriva il ruolo di lanciatore ma essendo un mancino veniva utilizzato sul diamante anche nei ruoli di esterno destro e prima base.
Ieri, 9 gennaio, è stato premiato dal presidente generale Antonio Buccioni tra gli atleti della storia biancoceleste al Salone d’Onore del Coni in occasione del 120mo anniversario della fondazione della Società Sportiva Lazio.
Lo abbiamo intervistato per farci raccontare quella esperienza meravigliosa che in passato ha raccontato in parte in una sua pubblicazione autobiografica: “Il breve tratto di una vita”.
“Da ragazzino abitavo a piazza Bologna e con i miei amici andavamo spesso al cinema a vedere i film americani, soprattutto quelli in cui vedevamo praticare il gioco del baseball. Nel 1951 avevo quindici anni ed ero innamorato di quello sport che avevo iniziato a giocare fin da ragazzino nel 1948.
All’epoca noi ragazzini andavamo allo Stadio dei Marmi dove dopo la fine della guerra andavano a giocare i soldati americani. Noi che avevamo iniziato a giocare in mezzo alla strada con tutte le difficoltà immaginabili stavamo lì ore e ore, incantati di fronte ai lanci, alle battute e alle corse sfrenate che di base in base loro facevano davanti a noi frementi di scendere sul diamante.
Tra vetri rotti e le grida che ogni tanto qualcuno rivolgeva contro di noi arrivò il 1952 e venni osservato per settimane da un talent scout della B.C. Lazio che a un certo punto si presentò e mi chiese di poter parlare con mio padre per farmi fare una prova con quella società importante che nel 1949 si era aggiudicata il primo scudetto del campionato nazionale della Federazione nazionale pallabase, Fipab, che allora era parallela alla Lib, la Lega italiana baseball.
Non mi sembrava vero di entrare a far parte di quella squadra della quale facevano parte tra gli altri anche Simminger, Joe Lubas e Tony Camera che amava molto giocare ai cavalli, oltre a Giulio Glorioso, Roberto Marin, Natalino Rodda, Fazio, Pesce e altri bravissimi giocatori.
Simminger era fortissimo e allenava noi lanciatori: Glorioso, Pesce ed io. Ricordo ancora quando ci gridava in romano/americano: “Pija la pala, pija la pala…”. La “pala” era la palla; “pija” invece significava “piglia”. Quante risate ci faceva fare.
All’epoca, dopo il 1952, la sede della Lazio si era trasferita in via Frattina e noi ci andavamo a leggere le convocazioni. Ricordo quando Joe Di Maggio venne a trovarci in sede e anche una visita lampo di Frank Sinatra che venne da noi nel 1953.
Incontri indimenticabili al pari di quello con Gregory Peck che stava girando a Cinecittà “Vacanze romane” al fianco della splendida Audrey Hepburn e nel 1952 aveva tirato la prima palla quando allo Stadio Nazionale ci fu la gara d’esordio della nazionale di baseball che affrontava la Spagna. Io non ero sul diamante, non ho mai giocato con gli azzurri ma ero seduto vicino a lui in tribuna.
Rivolgendosi a Glorioso, che lo aveva contattato e invitato personalmente gridò: “Go Giulio, go!”. Erano anni bellissimi per il nostro sport e l’Italia aveva appena cominciato a dire la sua in ambito europeo.
Si stava aprendo un ciclo importante, un’era vera e propria della quale noi Aquile siamo stati tra i protagonisti più lucenti.
Giocavamo al campo Artiglio, all’Acqua Acetosa, all’ex velodromo Appio e anche al Tiburtino al campo dei Ferrovieri. Il Campo Artiglio, sotto la presidenza di Salvatore Fazio, fu il mio primo campo di gioco, anche se era adattato al baseball in quanto era una campo di calcio.
Mi ricordo benissimo la vittoria del 1955 quando abbiamo battuto il Nettuno a casa loro al campo Borghese. Quelle emozioni fanno ancora parte di me e ricordo nitidamente l’esplosione di gioia che provammo al termine di quella gara.
Il loro Tiraboschi era un lanciatore formidabile: era un fulmine di guerra! Quasi un cecchino che dal monte era infallibile, un vero e proprio flagello.
Mentre il Nettuno si era aggiudicato quattro scudetti di fila lungo una serie che si era protratta dal 1951 e che soltanto noi siamo riusciti a interrompere. D’altro canto non eravamo da meno di loro.
Oltre a Glorioso, Rodda e gli altri nostri campioni c’era Roberto Marin. Roberto, classe ‘29 era un veterano; un interbase favoloso e per il suo fisico lo scambiavano per oriundo sudamericano. Atletico, scattante e grintoso come pochi altri, con lui in campo ci siamo tolti grandissime soddisfazioni. Nel 1954 andò anche a giocare in nazionale e in quello stesso anno vinse la Coppa Europa ad Anversa.
Dopo la gara contro gli acerrimi avversari di Nettuno ci gettammo a mare tutti vestiti, mentre fu a Roma all’Albergo Bernini di piazza Barberini che festeggiammo lo scudetto durante una cena altrettanto indimenticabile al pari dell’impresa sportiva che avevamo realizzato.
Quell’anno, il ’55, assieme a Rizzo, Sandulli, Glorioso e altri due giocatori del Nettuno eravamo stati selezionati da un talent scout americano e saremmo dovuti andare a giocare con gli Yankees di New York.
Dovevo andare a fare i provini in Florida ma mio padre era contrario perché in quello stesso periodo dovevo dare gli esami di maturità.
Guadagnavo al tempo 2/300 mila lire al mese e con quei soldi riuscii ad acquistare la mia prima automobile, una Fiat Topolino, ma proseguire la carriera non mi era possibile perché all’epoca lanciavano il calcio e l’avvento della Sisal contribuì a distruggere il baseball e sia mio padre che io, oltre ad altri miei compagni ce ne eravamo resi ben conto.
Il Flaminio in cui fino ad allora avevamo giocato le partite più importanti vide pian piano i tifosi del calcio sostituirsi a quelli del baseball.
Dopo la vittoria dello scudetto anche la società cominciò il declino. I cattivi rapporti con la federazione e il mutamento di interesse spostato dal baseball al calcio fece si che rimasi alla Lazio, l’unica società in cui ho giocato, fino al 1958, salvo poi dedicarmi totalmente al mio lavoro.
Dopo Giulio, sul monte insieme a Pesce c’ero rimasto solo io e dopo la cessazione dell’attività della Lazio continuava a cercarmi ma io dovevo lavorare. Avevo appena vinto un concorso pubblico ed ero andato a lavorare a Lecce, dove sono rimasto per dodici anni.
I miei figli Francesco (nella foto di copertina con la casacca originale indossata da Giuseppe nel 1955), nato nel 1961, Paolo e Patrizio, il più piccolo, erano lanciatori come me e dal 1978, grazie Giulio Glorioso e a Aldo Gabriele Urbano cominciarono a giocare a baseball con la Lazio sebbene in categorie diverse. Si allenavano al campo di Piazza Mancini.
Patrizio, mio figlio più piccolo fu il più penalizzato dopo il successivo declino della Lazio Baseball e del baseball romano.
I più grandi avevano giocato in Serie C che poi divenne Serie B e agli inizi avevano per allenatore Faraoni del Nettuno. In seguito tutti e tre i miei figli lasciarono amareggiati il baseball perché non avevano prospettive di carriera sebbene alcuni fossero diventati anche titolari del tesserino di allenatori. Quando alla metà degli anni Sessanta la Lazio vinse il campionato e doveva andare in Serie A non c’erano abbastanza soldi e non se ne fece niente. Il presidente di allora era Giuseppe Ridarelli.
Pende, Salvatore Fazio e Ridarelli, che era un insegnante di matematica, sono stati i miei presidenti dal 1952 al 1958.
Sotto la presidenza di Aldo Gabriele Urbano, che era collega di Glorioso al ministero, fui chiamato a fare il dirigente accompagnatore. Urbano mi stimava molto e si fidava a tal punto che su suggerimento di Giulio Glorioso nel 1976, ‘77 e ’79 mi aveva affidato la cassa.
Sia lui che Giulio mi avevano anche chiesto di tornare a giocare, ma io dati gli impegni di lavoro non potevo più. L’età non era un problema, il mio fisico era ancora in forma, così come grazie a Dio e alla mia passione per il podismo è rimasto a tutt’ora che ho 83 anni suonati.
Come allenatore in quel periodo di fine anni Settanta c’era il grande Michelangelo Minervini, ma i problemi economici sopravvenuti e peggiorati dopo il 1979 e soprattutto date le contese tra la Lazio Baseball e la federazione sotto la presidenza Beneck contribuirono a distruggere la sezione fino allo scandalo che fu provocato da Giulio Glorioso nel 1984, quando lui e la Lazio fecero cadere la sua presidenza.
L’ultimo allenamento a cui ho partecipato era a Valico San Paolo. Giulio Glorioso mi ha insegnato tutto e non lo potrò mai dimenticare”.