Il passato mondiale brasiliano ha portato con sé non solo importanti calciatori, ma anche una carrellata infinita di sponsor tecnici ed ufficiali pronti a mostrarsi ai nostri occhi. Analizzando dettagliatamente la storia del rapporto tra club brasiliani e marketing management le sorprese sono molte: basti pensare che fino alla “legge Zico” del 1993 non esisteva alcun tipo di regolamentazione di settore, mentre in Europa assistevamo contemporaneamente al consolidarsi di un vero e proprio business attorno al calcio.

Maglie e gadget di ogni tipo cominciavano a formare una voce importante a bilancio dei club europei, mentre l’economia di una squadra brasiliana ruotava ancora esclusivamente attorno ai propri calciatori: i club investivano ingenti somme in fisioterapia, medicina sportiva, preparazione fisica e tecnica, cercando di forgiare nuovi campioni da far “esibire” sul prato verde. Una volta forgiati grandi campioni, essi venivano immediatamente venduti a peso d’oro ai colossi europei, ed il denaro intascato dalle cessioni veniva riutilizzato per finanziare le sovracitate attività, nonché per risanare i debiti accumulati nel corso degli anni e per saldare qualche stipendio non erogato ai giocatori. Così facendo le società divenivano prigioniere di sé stesse, non riuscendo ad uscire dalla bolla di povertà in cui si trovavano e non sfruttando le enormi potenzialità che l’immagine di un club può creare.

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Rivaldo con la divisa del Palmeiras firmata Parmalat

La prima grande partnership che scosse le fondamenta del modello brasiliano ebbe come protagoniste il Palmeiras e l’italianissima Parmalat: nel 1992 l’azienda parmigiana erogò liquidità per coprire gli stipendi dei giocatori e dei dipendenti, ottenendo future percentuali sulla vendita dei giocatori ed apponendo il proprio marchio sulle maglie del Palmeiras, nonché a bordocampo nel corso delle partite casalinghe. Fu un’operazione di grande successo che purtroppo si interruppe bruscamente nel 2000 a causa del famoso crack finanziario che coinvolse Parmalat, ma questa opera pionieristica non fu vana: nel 1998 l’allora attuale ministro straordinario dello sport Pelè permise l’ingresso di banche, fondi di investimento e compagnie di marketing sportivo all’interno dei club brasiliani. Questa grande opportunità non si tramutò però in una risorsa a vantaggio dei club, finendo per diventare un ulteriore peso con cui fronteggiarsi: alcuni club furono persino costretti a vendere i calciatori migliori in pieno campionato per adempire agli oneri contrattuali stipulati con banche ed holding.

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Clube Atlético Paranaense

Era oramai chiaro che l’unica via di uscita era perseguire il “modello europeo”, portando i club ad adottare un’ottica manageriale interna tale da renderli indipendenti e capaci di gestire in autonomia la propria immagine: occorrevano manager esperti, ben pagati ed assunti a tempo indeterminato per progettare strategie a lungo termine capaci di generare introiti regolari nelle casse societarie. Il primo club ad attrezzarsi in questo senso fu l’Atletico Paranaense, che venne preso come modello di riferimento da squadre come Corinthians e San Paolo nei primi anni del 2000.

Ed oggi? Molti club minori non sono ancora riusciti ad adottare una visione manageriale del Marketing e della brand image, mentre quelli che hanno intrapreso questa via vivono ancora per la maggior parte di ricavi derivati dalle cessioni di giocatori, dai diritti TV e dalla semplice sponsorship (queste tre voci apportano ancora il 70% dei ricavi totali).

Daniele Fanciulli

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