Già nel ’46 nel corso del Congresso svolto in Lussemburgo la Fifa dice sì. Il pericolo di veder svanire la magia di una manifestazione, e il futuro della stessa, è reale. E riaprire il Campionato del Mondo è necessario. Il trofeo viene intitolato al presidente della Fifa in carica, Jules Rimet. L’effetto finale sarà una clamorosa vittoria dell’Uruguay, a quel punto bi-campione come l’Italia, che nell’ultimo atto (non era una finale in senso classico, spiegheremo perché) batte il Brasile mettendo a soqquadro una squadra e molto di più: un intero popolo. Una tragedia sfociata anche in suicidi di un numero imprecisato di tifosi.
STRANA FORMULA, NO ALL’ELIMINAZIONE DIRETTA
Le squadre partecipanti sono 13. Germania Ovest e Giappone sono out poiché hanno causato le devastazioni belliche. Altre non hanno mezzi né lo spirito per ripartire. L‘India rinuncia dopo aver “scoperto” che si deve giocare calzando scarpini regolamentari: loro se la cavano a piedi nudi. L’Argentina dice no per problemi legati al professionismo e allo sciopero di alcuni big. L‘Inghilterra, per la prima volta, decide di scendere dal trono -personalissimo- di “Regina del Footbal” e di misurarsi con la concorrenza.
Tredici squadre impongono lo studio di una formula strana: si fanno i gironi eliminatori (due di 4 squadre, uno da 3, e un altro con 2 sole squadre), poi un girone finale con 4 squadre: sarà campione del Mondo chi avrà fatto più punti. E’ per questo che l’ultima gara in calendario, Brasile-Uruguay il 16 luglio 1950, al Maracanã, non è una vera e propria finale, solo l’ultima gara del girone. Il Brasile ha 4 punti, l’Uruguay 3. Ai verde-oro basterebbe un pareggio per vincere il trofeo, e sulla vittoria non hanno il minimo dubbio. Segnano il gol dell’1-0, e non fermano la loro voglia di attaccare: insensata, ma è nel loro dna. E la ferocia tattica e agonistica dell’Uruguay, da sempre loro arma letale, li punisce: il gol del pareggio di Schiaffino e l’unghiata di Ghiggia a 11 minuti dalla fine. E’ il trionfo Celeste e una indimenticata tragedia nazionale.
LE PAROLE DI JULES RIMET
Per capire, ecco quel che raccontò poi Jules Rimet, presidente della Fifa, al momento della consegna del trofeo alla squadra vincitrice. “Tutto era stato previsto, tranne il vincitore. Al termine della partita, avrei dovuto consegnare la Coppa al capitano della squadra campione. Un’imponente guardia d’onore si sarebbe dovuta formare dal tunnel fino al centro del campo di gioco, dove mi avrebbe atteso il capitano della squadra vincitrice. Naturalmente il Brasile. Preparai il mio discorso e mi recai presso gli spogliatoi pochi minuti prima della fine della partita”. In quel momento, Brasile e Uruguay stavano pareggiando 1 a 1 e il pareggio assegnava il titolo al Brasile. “Ma mentre attraversavo i corridoi il tifo infernale si interruppe”. Aveva segnato Ghiggia. “All’uscita del tunnel, un silenzio desolante dominava lo stadio. Né guardia d’onore, né inno nazionale, né discorso, né premiazione solenne. Mi ritrovai solo, con la coppa in mano e senza sapere cosa fare. Nel tumulto finii per scoprire il capitano uruguaiano, Varela, e quasi di nascosto gli consegnai la statuetta d’oro, stringendogli la mano, e me ne andai, senza riuscire a dirgli una sola parola di congratulazioni per la sua squadra”.
VARELA, IL DISPIACERE DI UN CAMPIONE
“Se dovessi giocare di nuovo quella partita, mi segnerei un gol contro. L’unica cosa che abbiamo ottenuto vincendo il titolo è stato di far felici i dirigenti della Federazione uruguaiana che si fecero consegnare le medaglie d’oro e a noi giocatori ne diedero altre d’argento. Questo è stato il riconoscimento”. Ma guardare negli occhi quella gente distrutta dal dolore per una sconfitta, no, non poteva dimenticarlo. “Chi non c’era, non può capire”. Parole e onore di Obdulio Varela, capitano e trascinatore della Celeste, simbolo di una Nazionale felice di aver scalato un’altra volta la vetta del mondo e “pentito” per aver causato quel dramma. Dopo la partita, e il giorno dopo la partita, Varela camminava per le strade di Rio, “avevo addosso l’angoscia di vedere la disperazione di tanta gente”, raccontò. Visse la sua vita, poi, lontano dalla ribalta, teneva alla sua famiglia, visse anche in miseria facendo il posteggiatore: non gli interessavano onori e titoli.
E L’ITALIA ANDO’ IN… BARCA
E la Nazionale azzurra? C’era, ma non con la testa, nemmeno lo spirito. La tragedia di Superga, un anno prima del Mondiale, aveva azzerato il meglio del calcio italiano ed europeo, forse mondiale: il Grande Torino. Dalla Guerra e da quella sciagura, restava una Nazionale impoverita, impaurita e campione del Mondo in carica. In Brasile si doveva andare, ma in aereo no, quel che era accaduto allo squadrone granata imponeva la scelta navale, Nessuno osava dire il contrario, pur sapendo che 15 giorni di navigazione avrebbero azzerato la tenuta atletica dei giocatori, alcuni dei quali di altissimo livello come Boniperti e Lorenzi. Allenamenti sul pontile, noia a non finire, infortuni muscolari quasi inevitabili, a San Paolo (sede del ritiro) un hotel di lusso, e anche con lussuose distrazioni (c’era un corpo di ballo), impossibile recuperare la condizione dopo lo sbarco e una spedizione destinata a soccombere finì presto la sua avventura: la sconfitta 3-2 con la Svezia (sempre la Svezia…), rese inutile il 2-1 sul Paraguay: svedesi al girone finale, azzurri a casa. Ma senza grandi rimpianti.
IL LIBERO, ANTIPASTO DEL CALCIO CHE SARA’
Il Brasile ostentava il suo primo 4-2-4 da meraviglioso perdente: fuochi d’artificio con l’immenso uomo-gol Ademir (fra gli altri), e sciagurati vuoti di memoria difensiva, non solo in finale. C’è anche un 2-2 con la modesta Svizzera a corredo delle partite sbagliate dai verde-oro. Le contro-manovre dell’Uruguay, da sempre maestro di tattica e ligio al suo principio, che poi era il ragionato diritto-dovere di far leva su certe virtù agonistiche visto che sul piano tecnico il Brasile sovrastava tutti. E infine la Svizzera, culla di un modulo di gioco (il Verrou) che godeva del privilegio di un uomo in difesa libero da impegni di stretta marcatura. Era il “libero” che da quel mondiale prese la mano ai tecnici di tutto il Mondo, diventando per 50 anni e oltre anche l’etichetta di calciatori leggendari.
Raffaele La Russa